Dai tuoi occhi solamente

di Francesca Diotallevi

La nostra recensione

È piaciuto alla maggioranza di noi il libro di Francesca Diotallevi, giovane scrittrice di cui abbiamo apprezzato la scrittura, le riflessioni acute e profonde, le metafore, le similitudini. Un libro che si legge tutto d'un fiato, nonostante i toni cupi, la tristezza che accompagna la vita (vera o presunta) di Vivian Maier. Tema principale è quello del talento, della creatività che non sboccia e non si manifesta fino in fondo. La motivazione, per Vivian, è un complesso e doloroso rapporto con la madre, unita alle molestie subÍte, che la rendono schiva, sfuggente a qualsiasi relazione affettiva ma anche incapace di mostrarsi e di mettersi a nudo. Solo attraverso la fotografia riesce ad affrontare il mondo circostante, con sguardo disincantato, cogliendone gli squarci e le ferite. Un mondo quotidiano e di strada, rigorosamente in bianco e nero, in cui non ci si mette in posa ma si viene colti di sorpresa dall'obiettivo di Vivian. Il tema fondamentale è quello della solitudine, che qualche lettore ha sottolineato essere comunque un tratto positivo di questa donna che è così autonoma e indipendente. Ci resta il dubbio se si tratti di una libera scelta e se quella di Vivian sia una vita piena e soddisfacente. E' difficile calarsi nel romanzo prescindendo dal fatto che il punto di partenza è una persona realmente esistita di cui si sa poco o nulla. Se ci limitiamo alla lettura del libro, senza soffermarci sulla questione finzione/vicenda reale, ci colpisce il fatto che tutte le donne abbiano relazioni difficili con i figli, che la ferita di Vivian sia stata quella di Marie e che il dolore si trasmetta di generazione in generazione intensificando la sofferenza e la solitudine. Non ci sono figure maschili positive in questa vicenda, tranne il nonno Nicolas che comunque come padre e marito non è certo esemplare. Frank Warren è l'alter ego di Vivian: come lei non trova il coraggio di far sentire la sua voce più autentica e consegna agli altri un'immagine di sé falsata e distorta. Entrambi vivono in ombra, nascondendo la loro vera natura.

La trama:

New York, 1954. Capelli corti, abito dal colletto tondo, prime rughe attorno agli occhi, ventotto anni, Vivian ha risposto a un’inserzione sul New York Herald Tribune. Cercavano una tata. Un lavoro giusto per lei. Le famiglie l’hanno sempre incuriosita. La affascina entrare nel loro mondo, diventare spettatrice dei loro piccoli drammi senza esserne partecipe, e osservare la recita, la pantomima della vita da cui soltanto i bambini le sembrano immuni. 
La giovane madre che l’accoglie ha labbra perfettamente disegnate con il rossetto, capelli acconciati in onde rigide, golfini impeccabili. Dietro il suo perfetto abbigliamento, però, Vivian sa scorgere la crepa, il muto appello di una donna che sembra chiedere aiuto in silenzio. Del resto, questo è il suo lavoro: prendersi cura della vita degli altri. L’accordo arriva in fretta. A lei basta poco: una stanza dove raccogliere le sue cose; una città, come New York, dove potere osservare le vite incrociarsi sulle strade, scrutare mani che si stringono, la rabbia di un gesto, la tenerezza in uno sguardo, l’insopportabile caducità di ogni istante. Ed essere, nello stesso tempo, invisibile, sola nel mare aperto della grande città, a spingere una carrozzina o a chinarsi per raddrizzare l’orlo della calza di un bambino. Scrutare i gesti altrui e guardarsi bene dall’esserne toccata: questa è, d’altronde, la sua esistenza da tempo. 
Troppe, infatti, sono le ferite che le sono state inferte nell’infanzia, quando la rabbia di un gesto – di sua madre, Marie, o di suo fratello Karl, animati dalla medesima ira nei confronti del mondo – si è rivolta contro di lei. 
Sola nella camera che le è stata assegnata, Vivian scosta le tende dalla finestra, lancia un’occhiata al cortiletto ombroso e spoglio nel sole morente di fine giornata, estrae dalla borsa la Veronasua Rolleiflex e cerca la giusta inquadratura per catturare il proprio riflesso che appare contro l’oscurità del vetro. 
È il solo gesto con cui Vivian Maier trova il suo vero posto nel mondo: stringere al ventre la sua macchina fotografica e rubare gli istanti, i luoghi e le storie che le persone non sanno di vivere.