Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

La nostra recensione

Leggere "Ogni mattina a Jenin" in questo momento significa riconoscere la scarsa conoscenza degli avvenimenti che hanno caratterizzato 76 anni di conflitto israelo-palestinese. Da questo presupposto siamo partiti nella scelta di questo romanzo che sta alla Palestina come "Il cacciatore di aquiloni" sta all'Afghanistan: entrambi i romanzi riempiono un vuoto, soprattutto in Occidente, portando alla luce le sofferenze patite dalla popolazione. Uscito quasi in sordina negli USA nel 2006 con il titolo "La cicatrice di David" (in Italia "Il segno di David"), ripubblicato con successo nel 2010 con il titolo attuale e tradotto in 32 lingue, il libro trae origine dal massacro del campo profughi di Jenin del 2002, del quale l'autrice fu testimone. Narrato in prima e in terza persona, questo romanzo corale ripercorre le vicende di una famiglia palestinese a partire dall'abbandono della casa di Ain Hod (città occupata dal nuovo stato di Israele nel 1948) per arrivare alla quarta generazione, che pur vivendo negli Stati Uniti continua a pensare alla Palestina come alla terra delle proprie origini, anche se il luogo è stato cancellato dalle mappe. Il primo capitolo ha colpito le lettrici e i lettori per il tono poetico e le immagini di una vita semplice immersa in un paesaggio idilliaco. Qui l'amicizia tra Hassan e Ari racconta di una convivenza possibile. Dall'esilio in poi si entra nella drammaticità dell'occupazione e del conflitto. Il rapimento di Isma'il è simbolico di una situazione umana e politica: una donna ebrea che ha subìto le atrocità dell’Olocausto realizza il sogno della maternità portando via il figlio ad una madre araba. Il desiderio dell’una si concretizza sulla sofferenza e sulla perdita dell’altra. Le conseguenze di quell’azione carica di egoismo, così come le conseguenze dell'espugnazione forzata di territori già abitati, non vengono soppesate. Sarà difficile per Isma'il divenuto David ricucire lo strappo tra il passato e il presente, tra le due identità che suo malgrado deve accettare. In un crescendo di eventi sempre più drammatici in cui il lettore si trova coinvolto attraverso le esperienze dei protagonisti assistiamo alla Naksa nel 1967, alla strage di Sabra e Shatila del 1982 fino alla battaglia di Jenin del 2002 e alla morte di Amal che già si preannunciava nella prima pagina del romanzo. Con la sua morte - abbiamo osservato - finisce la speranza (questo infatti il significato di Amal in arabo). Nonostante l'odio che fomenta altro odio in una catena di atrocità da entrambe le parti, fino alla definizione del martirio come l'ultima spiaggia per chi ha già perso tutto, l'autrice riesce a focalizzarsi invece sull'amore, sui legami profondi all'interno del campo profughi che hanno spinto i palestinesi ad andare avanti. Ci hanno colpito in particolare l'affetto profondo tra Amal e Huda e la grande solidarietà tra tutte le donne di Jenin. Difficile tuttavia essere madri in quel contesto, riuscire ad esprimere un affetto pieno e completo. Non ci riesce Dalia e non ci riesce neppure Amal. Solo il ritorno in Palestina, il riannodare il legame con Huda, permetterà alla protagonista di riversare l'amore su Sara senza più alcuna resistenza. L'epilogo riporta l'ultima generazione in Pennsylvania dove Sara Jacob e Mansur potranno convivere e lasciarsi l'odio alle spalle, a patto di rimanere lontani dalla terra dei loro antenati. Nonostante i personaggi siano fittizi una parte del racconto è autobiografico e gli avvenimenti storici sono reali al punto da aver toccato profondamente la maggior parte delle lettrici e dei lettori. Ne è suscitata una discussione molto partecipata, non priva di punti di vista differenti, in cui l'emozione ha predominato. Un romanzo che offre una narrazione diversa che non è né giusta né sbagliata semplicemente ci offre uno sguardo altro, mettendoci in guardia dal prendere una posizione radicale e unilaterale.