Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa

La nostra recensione

La lettura di “Ogni mattina a Jenin” è stata, per i partecipanti del nostro gruppo di lettura, un’esperienza profonda, tormentata e, a tratti, dolorosa. Tuttavia l’opinione di tutti è che questa sia stata anche una lettura preziosa e, in qualche modo, necessaria.
Come lamentato dallo storico Edward Said, esiste un grande vuoto nella storia del popolo palestinese: un’opera letteraria importante capace di rappresentare, anche agli occhi degli occidentali, la tragedia sofferta dalle diverse generazioni di palestinesi a partire dal 1948, data della nascita dello Stato di Israele.

Questo libro è probabilmente il tentativo più riuscito finora di colmare questo vuoto.
La scrittrice americana di origine palestinese Susan Abulhawa sceglie di raccontare la storia travagliata di un intero popolo seguendo le vicende di una famiglia che, nel corso di quattro generazioni, vivrà sulla sua pelle tutti i momenti più drammatici e importanti della storia di quella regione.
L’inizio del romanzo ha trasportato i lettori, con toni poetici e nostalgici, alla scoperta della vita quotidiana del piccolo villaggio di Ain Hod, entrando nelle umili case degli suoi abitanti, cariche degli odori e sapori della loro cucina, conoscendo le loro fatiche e soddisfazioni nel lavoro delle campagne e assistendo allo scorrere della vita, tra nascite, amori, matrimoni, amicizie, conflitti e lutti.
Questa parte iniziale, seppur breve, è stata di grande importanza per i lettori, perché ci ha ricordato ancora una volta, semmai ce ne fosse il bisogno, che la Palestina non era affatto, prima del 1948, una “terra senza popolo”.
Tutto questo fu spazzato via dalla “Nakba”, la catastrofe, ovvero la cacciata violenta di oltre 700.000 palestinesi dalle loro terre e la distruzione di centinaia di villaggi, in un deliberato tentativo di cancellazione della memoria storica di un intero popolo.
La vita che segue, nel campo profughi di Jenin, è durissima e mette a dura prova la resistenza di tutti, soprattutto degli anziani strappati con violenza dalle loro terre e di quanti hanno perduto i loro cari, uccisi o scomparsi in quei giorni tragici.
È proprio a Jenin che nasce, da profuga, la voce narrante del romanzo, Amal (“speranza” in lingua araba).
L’infanzia di Amal si svolge nella precarietà del campo, in cui nella grande povertà c’è spazio per la condivisione e la solidarietà, in cui grandi amicizie e affetti nascono anche all’ombra di tragedie che hanno segnato per sempre i cuori e le menti di quanti non riescono a dimenticare.
Sono molti i personaggi che i lettori del nostro gruppo hanno apprezzato: dal nonno di Amal, il patriarca Yehya, disposto a morire fieramente pur di rivedere la sua terra, alla tenace Bessima, sua moglie, sepolta sotto un letto delle rose che tanto amava.
Hassan e Dalia, i genitori di Amal, sono altrettanto carismatici: un intellettuale amante della poesia, che trasmetterà ai suoi figli l’amore la cultura e per la lettura alle prime luce dell’alba e una madre beduina, ribelle e bellissima, per sempre cambiata da una perdita enorme.
I due fratelli maggiori di Amal, Yussef e Isma’il, hanno un grande peso nella storia: l’uno cresciuto nella violenza dell’occupazione e spinto verso la resistenza armata, l’altro, rapito in fasce, e cresciuto da ebreo inconsapevole delle proprie origini.
Questa è una storia di un odio profondo e di una insaziabile sete di vendetta ma è anche la storia di amori assoluti e di amicizie che danno la forza di superare l’inenarrabile, come quella tra Amal e l’amica di sempre, Huda.
Una speranza per il futuro di Amal si apre con la sua ammissione in un orfanotrofio di Gerusalemme e successivamente, grazie ai suoi ottimi risultati scolastici, con una borsa di studio che le consente di raggiungere l’America e di laurearsi e, poco tempo dopo, di progettare un futuro famigliare felice.
Ma durante tutto questo tempo l’inarrestabile catena di atrocità da entrambe le parti non si è mai arrestata e la violenza esplode nel 1982 nel massacro dei campi profughi di Sabra e Shatila, che improvvisamente priva Amal degli affetti più cari e di ogni speranza per il futuro.

Mentre Amal sprofonda in un tunnel buio di silenzio e rifiuto, la nuova vita che cresce dentro di lei la tiene, contro la sua volontà, aggrappata al presente e a quella sorgente di amore che credeva essere per sempre inaridita e che, invece, goccia a goccia torna a rinascere.

“Ogni mattina a Jenin” può non essere un romanzo perfetto: alcuni di noi hanno colto alcune incongruenze temporali o un tentativo probabilmente esagerato nel voler porre una singola famiglia al centro di così tanti eventi tragici della storia del popolo palestinese. Ma poco importa: quello che conta è che finalmente sia stata data voce ad un popolo che nel corso degli ultimi 75 anni ha vissuto una storia ininterrotta di umiliazione e violenza.
Quello che conta, inoltre, è che questo libro ci abbia lasciato con tanti interrogativi.
Esiste una possibilità di riconciliazione, dopo tutta questa violenza?
Che cosa diventerebbe ognuno di noi in una situazione del genere, esposto ad ogni tipo di sopruso e impossibilitato a richiedere giustizia?

Qualunque sia la riflessione che nascerà da questi interrogativi, è importante ricordare quello che la stessa Susan Abulhawa ama ripetere: ogni scrittore palestinese quando scrive, a prescindere da ciò che scrive, fa un atto di resistenza perché fa parte di un popolo a cui hanno cancellato il proprio posto sulle mappe; così qualsiasi espressione artistica diventa atto politico.
Quello che noi possiamo fare, come lettori, è restare in ascolto di chi chiede che la sua identità non vada perduta.